martedì, dicembre 21, 2004

io mi bugo

BUGO
La Prima Gratta

Ottobre 2002. Esce "Dal Lofai al Cisei", terzo album di Bugo, primo per Universal. D'un tratto quest'uomo acquisisce il potere dell'ubiquità e te lo vedi sul canale musicale, te lo leggi su ciascuna rivista musicale, dalla fanzine "quattro gatti e una chitarra" al supplemento musicale dell'importantissimo quotidiano. Ma ho detto Universal. Siccome tutti ne parlano più-che-bene-troppo-bene, salta fuori, anticorpi della situazione, una certa quantità di individui che invece si dedica al lancio dello sterco contro il Bugatti, additato come strumento delle multinazionali per rincoglionire i giovani, patetico prodotto a tavolino, raccomandato, graziato dalla Dea Culo, che è notoriamente cieca, e così via. A ben considerare, la verità sta più o meno nel mezzo, che però non significa Democrazia Cristiana, e non è tutta colpa dell'"artista", termine che la stampa seria usa pure per Justin Timberlake. Ma siccome questa è solo una tenera webzine si può chiamare la gente col proprio nome.
Innanzitutto, non userò mai questa parola, artista, per Bugo. Sarebbe come vestire un metalmeccanico di un qualunque abito delle sfilate di Haute Couture parigine: insomma, una grave offesa per il metalmeccanico. Perché si sprecano tonnellate di cartacce per queste ampollose definizioni, e probabilmente Bugo le userebbe soltanto per scriverci dietro la tracklist del prossimo concerto.
Se si va a riascoltare "La prima Gratta", eloquentemente, primo album del nostro, uscito nel 2000, eppure sembra un casino fa, e via di nostalgia delle mezze stagioni perdute, si può agevolmente comprendere che Il Bugatti per quel contratto major non deve avere mosso veramente un dito, perché lo stile di Bugo, nel tempo si è spostato pochino, e quindi si riscontrano a fatica i sintomi di quella curiosa malattia che i puristi dell'underground diagnosticano come "commercializzazione", e che però un Piero Pelù qualsiasi chiamerebbe "maturazione". Di chi? Dell'artista, chiaro. Ma voi mi capite: nella comunità scientifica su questi argomenti non si è ancora raggiunto un accordo soddisfacente. Io ad esempio non sto né con Pelù né coi puristi.
Il fatto è che, semplicemente, "La prima Gratta" è il primo disco di questo "cantante", ed allora sarà per forza il più Lo-Fi, il più disomogeneo di tutti, anche se in futuro costui non si convertirà mai alle iperproduzioni stile Toto. Ci sarà dentro un po' di tutto, materiale un po' a caso scritto nei molti anni prima, dai Nirvana apocrifi di "Quante menate che mi faccio", all'Hard Rock tamarro di "Sabato Mattina", dai frammenti di elettronica da mensa dei poveri, alle inimitabili ballatone tristi, vedi "Spermatozoi", autentico marchio di fabbrica del nostro. Dal blues mesto di "Nei momenti così" al Guccini registrato in bagno di "Addio alle canzoni di una volta". Dalle canzoni belle in veste dimessa alla fuffa ("I Baci della Mia Nonna", "Nonne Posso Più"). E per questo sarà un notevole documento Lo-Fi, un foglio sgualcito pieno di sgorbi, di intuizioni splendide lasciate lì a metà e illeggibili per la cattiva calligrafia e di altre cose-non so cosa. Ma non tutti avranno voglia di leggere testi dalle rime forzate che sembrano-sono proprio stupidi, ma a tradimento infilano nel mucchio la perla di saggezza travestita da stronzata. E' comprensibile. Io stesso penso che parte del materiale di Bugo sia assolutamente superfluo. Il problema è che ora Bugo, parallelamente ad una moderatissima, fisiologica, normalizzazione, si è inserito nei salotti buoni, e deve rispondere alle domande da artista che gli vengono poste ad appannaggio del pubblico quindicenne o distratto, o entrambi. Secondo me se l'è cercata, anche un pochino per la voglia di maturazione. Allora il mio giudizio resta sospeso.

venerdì, dicembre 17, 2004

FAME CHIMICA

Il Ballo dei pezzenti

Girato tra l’Italia e la Svizzera, questo mediometraggio riadattato a film insegue una tradizione del cinema italiano indipendente da proteggere e coltivare; ritorna la patata bollente dell’universo giovanile, ma siamo molti anni luce lontani dalla trattazione canonica della materia, capace di provocare danni incalcolabili alla nostra produzione in celluloide (sotto la voce divismo di cartapesta, chiedere del signor Muccino). Il film di Vari e Bocola, finanziato da una cooperativa su un’idea del ’97, ricalca sostanzialmente gli stereotipi del genere, cucinando personaggi e situazioni non certo nuove; si rischia la deriva didattica nell’esplicita esposizione del paradigma, dove il messaggio è giocato sull’eccesso e la filippica sovrasta spesso l’allusione, ringhiando il suo contenuto invece di iniettarlo sottopelle [una per tutti: la grande rissa bianchi/neri per simboleggiare il razzismo latente (ma non troppo…) della società contemporanea]. FAME CHIMICA accusa vagamente il colpo del luogo comune, almeno in un caso rimanendone annichilito: i due personaggi che scopano in piscina affiorano dalla peggiore cartolina giovanil/fighetta che davvero non vorremmo più vedere. Nonostante tali difetti innegabili ed evidenti e con un carico di aggravanti di carattere “sociale” (l’ardua pretesa di raccontare ciò che ci circonda), la pellicola mantiene un’onestà di fondo che le regala a tratti inedita freschezza, distinguendola dalla produzione di genere; se lo spettatore saprà gettare l’occhio sui singoli squarci piuttosto che sul globale risaputo scoprirà amarissime sorprese [una gioventù fancazzista ed apatica, esseri umani ipnotizzati davanti alla Playstation, una discoteca mai così vera…] che imbracciano la consegna dell’ultimo realismo metropolitano, ormai l’unico possibile. Lo spartito sentimentale è quello di JULES ET JIM –capolavoro fin troppo sputtanato- mentre la vacuità periferica (Piazza Gagarin, che nella realtà non esiste, possiede la semplicità del simbolo) rivolge costantemente il capo a Spike Lee senza possederne l’essenziale furore. Lo diciamo subito: la colonna sonora mutevole ed adeguatamente rappata resta lo spunto migliore dell’intera pellicola. Un’insospettabile sorpresa: Zulù che compare per manovrare il sipario del film, ritagliando un memorabile controcanto omerico al flusso degli eventi.

Emanuele Di Nicola

NON mi ricordo piu una cosa

Trama


Joel scopre che la sua fidanzata Clementine si è sottoposta a un esperimento psichiatrico per cancellare dalla sua memoria ogni traccia del tempo trascorso insieme a lui. Frustrato dall'idea di essere ancora innamorato di lei, che invece non vuole più saperne di lui tanto da volerlo eliminare dai suoi ricordi, decide di fare altrettanto e si reca presso lo studio del dott. Howard Mierzwaik, inventore del trattamento, per sottoporvisi. Una volta iniziato il processo di cancellazione però, Joel si rende conto che non è quel che vuole e comincia a nascondere i ricordi legati a Clementine mescolandoli con altri episodi del suo passato...


FUNZIONERA'?
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martedì, dicembre 07, 2004

si va in austria.

sia va in austira a salisburgo. si parte domani. bella storia.

sabato, dicembre 04, 2004

che partita di merda.

son felice perche' abbiam vinto. pero' ultimamente non sono per niente tranquillo quando gioco....ed eran anche venuti a vedermi.

che figura di merda.

mercoledì, dicembre 01, 2004

tranquillita'

abbracci sinceri. lacrime. calore. risate.

e' bello sentirsi in sintonia con una persona.

domenica, novembre 28, 2004

LA neve

stanotte ho incontrato la prima neve ad un chiaro di luna splendido.

gelido perfetto. il ritorno da pisogne. gelido come la serata.

l'incanto del silenzio notturno. tranquillita'.

sabato, novembre 27, 2004

SCONFITTA

sono stufo di far finta di avere degli amici.....

giovedì, novembre 25, 2004

alife

Tracklist

1. Sea Song

2. Last Straw

3. Little Red Riding Hood Hit The Road

4. Alifib

5. Alifie

6. Little Red Robin Hood Hit The Road



Autore: ROBERT WYATT
Titolo: Rock Bottom
Anno: 1974
Genere: prog-rock, Canterbury
Etichetta: Rykodisc


Il Challenger Deep nelle Marianas Trench è il punto dell'Oceano Pacifico laddove si raggiunge la maggiore profondità marina: 11.000 m circa. È il fondo dell'Oceano.

Il posto dove non è possibile concepire alcuna forma di vita "normale"; possiamo solo immaginare l'esistenza di una flora o di una fauna dalle caratteristiche assolutamente ignote. È quello il regno che si pone come ideale confine tra il "reale" e il "fantastico"; ed è lì che questo meraviglioso disco di Robert Wyatt ci condurrà.

È lo stesso Wyatt a indicare il nesso tra la genesi di "Rock Bottom" e il mare, nelle note dell'ultima edizione della Rykodisc: "Questa musica cominciò a nascere a Venezia, durante l'inverno del 1972, sull'isoletta della Giudecca in un vecchio palazzo che guarda alla laguna".

Sebbene siamo sicuri che la musica di questo disco fosse già immensa e bellissima al suo natale, c'è un evento che ha inciso irreversibilmente su di essa, su tutta la musica di Wyatt a venire e sulla sua vita. Nel giugno del 1973, anno in cui doveva nascere il terzo disco dei Matching Mole, Robert cadde da una finestra al quarto piano e riportò la frattura della spina dorsale, perdendo per sempre l'uso di tutto ciò che si trova sotto la cintola; costretto a vivere su una sedia a rotelle, nel 1974, otto mesi dopo l'incidente, comincia dar forma al materiale rimasto in sospeso o in parte elaborato in ospedale, durante la convalescenza. La nuova condizione sarà un filtro inevitabile a tutto ciò che era in nuce all'inizio del '73.

Finalmente la compenetrazione tra i linguaggi del rock e del jazz, che tanto hanno significato nello sviluppo del progressive-rock da "Bitches Brew" (l'opera seminale di Miles Davis) in poi, è completa. Il disco, a differenza di ciò che Wyatt aveva prodotto sino ad allora, non andrebbe considerato come l'insieme di sei tracce, ma come un flusso continuo, come quelle correnti oceaniche che, viaggiando invisibili da un capo all'altro del pianeta, si immergono e riemergono dagli abissi: una lunga suite di 40 minuti.

"Sea Song", il preludio alla discesa, è quanto di più pacato e inquietante si possa immaginare; si attraversa il grande portale delle barriere coralline e lì comincia la lenta discesa dell'uomo solitario.

Con "Last Straw" egli attraversa i fittissimi strati d'acqua, sempre più densi e dalla temperatura sempre più bassa: il gelo dell'anima. Un'atmosfera tesa da un contrappunto di tastiere sul quale danza una melodia straniante di chitarra (suonata dallo stesso Wyatt). La transizione attraverso i densi strati si compie; ormai la luce del sole è pallida ed è sempre più un pallido ricordo; i suoni assumono una nuova timbrica e nelle prossimità del fondale estremo scorgiamo per la prima volta le remote forme di vita degli abissi.

Robert, nel suo viaggio no-limits per l'orecchio e la mente, ci introduce a questa magica visione con l'esplosione delle innumerevoli sovraincisioni della tromba di Mongezi Feza, nel successivo "Little Red Riding Hood Hit The Road"; la visione (acustica) di questo mondo sconosciuto toglie il respiro e sembra voler farlo desistere, quasi non meritasse tale esperienza: "Oh dear me, heavens above, oh no, no I can't stand it / Stop please, oh deary me, what in heaven's name?". Il fondo è toccato… L'eco delle trombe di benvenuto e una sottile linea di basso (grandioso Richard Sinclair!) sono l'unica cosa che rimane; il mondo a noi conosciuto finisce qui, con tutto il suo universo di suoni.

La permanenza sul fondo del Challenger Deep è rappresentata dal doppio brano "Alifib/Alife". Le parole, inutile intralcio all'esternazione dei propri sentimenti, si svuotano di significato corrente e diventano puro suono; le frasi abbandonano ogni velleità di coerenza e ne rimane solo ritmo e metrica. Il regno dei nuovi suoni esprime l'immensa solitudine dell'uomo e il suo anelito di salvezza; l'amore per la vita, per la propria donna sono l'unica cosa che possa tenerlo in vita in quelle estreme condizioni: "I can't forsake you, or forsqueak you, Alife my larder…", parole che trasudano nobilissimi sentimenti ma incomprensibili a livello del mare. È questa dicotomia tra l'uomo che tocca il fondo del mare e tutti coloro che rimangono in superficie a caratterizzare la doppia vita di questo brano, probabilmente il momento più intenso di tutta la carriera di Wyatt.

La rinascita dell'uomo nuovo (è bene ricordare il finale dello splendido "2001: A Space Odissey" di Kubrick) passa attraverso il suo progressivo e inesorabile annichilimento; "Little Red Robin Hood Hit The Road", la catarsi del viaggio è compiuta, l'uomo nuovo ha definitivamente abbandonato il suo fardello di esperienze passate e può ricominciare la lenta risalita verso la superficie. La gioia di vivere ha salvato il viaggiatore che, sugli accordi di un bordone (suonato da Ivor Cutler), recupera la sua vita e i suoi affetti, tutt'altro che scontati.

L'oceano è, pertanto, semplicemente, l'allegoria del cervello; come lo era lo spazio profondo in "2001" o l'Overlook Hotel in "Shining". L'uomo che scende alle profondità oceaniche è, così, l'intelletto; come la capsula di David nel viaggio oltre l'infinito nel citato film di Kubrick.

Le domande poste sono urgenti e le risposte dovranno rappresentare il motivo che spingerà l'uomo Wyatt a risorgere dagli abissi: chi sono? che devo fare?

Il rapporto con il suo passato, il luogo della memoria, lascia inappagate tali domande. È solo attraverso l'annullamento di tutto ciò che "è stato" che Wyatt può sperare di (ri)vivere. Del resto è lo stesso Wyatt a svelarci l'arcano della sua nuova psicologia: "…mi crea parecchi problemi parlare di ciò che accadde prima dell'incidente. In ‘Rock Bottom' e nelle cose successive mi riconosco ma il mio Io adolescente, il bipede batterista… non lo ricordo e non lo capisco. Mi costa fatica parlare di com'ero prima; (…) vedo l'incidente come una specie di linea di netta demarcazione tra la mia adolescenza e il resto della mia vita".

Musicalmente, "Rock Bottom" rappresenta il raggiungimento della maturità espressiva di Wyatt. Secondo le sue stesse dichiarazioni, egli è debitore dei suggerimenti della sua compagna Alfreda Benge (affettuosamente chiamata Alfie); la densità di struttura che aveva caratterizzato le sue composizioni con i Soft Machine, prima, e con i Matching Mole, poi, veniva definitivamente abbandonata. Ad essa si preferiva un'atmosfera distesa, pacata, quasi da pace dei sensi, recuperando e amplificando l'atmosfera di un brano "minore" dei Beatles, "Flying", a suo dire, uno dei suoi 10 brani preferiti di sempre. Sebbene fosse diventata per lui un'esigenza, Wyatt si getta sulle tastiere e sulla voce (d'ora in poi il suo vero "strumento") per annegare la rabbia del dada-drummer che fu. La sezione ritmica del doppio "Alifib/Alife", affidata al respiro/sospiro è entrata prepotentemente tra le "trovate" più geniali di tutta la storia della musica.

Sebbene gli ospiti siano tanti, è innegabile che il disco suoni come l'opera di un uomo solitario, sotterraneo, tanto da guadagnarsi il soprannome di "Mole", la talpa. Sapientemente guidati da questo menestrello, pifferaio magico delle anime dai tempi di "Moon in June", gli amici Richard Sinclair e Hugh Hopper (al basso), Laurie Allan (alla batteria), Ivor Cutler (voce recitante e bordone), Mongezi Feza (alla tromba), Gary Windo (al sax e al clarinetto), Fred Frith (alla viola, degno di un Cale di "Heroin"), Mike Oldfield (alla chitarra) danno il meglio di loro stessi, rendendosi spesso protagonisti di passaggi che hanno fatto la storia del loro strumento. È grazie al loro amore per l'amico fraterno, alla produzione del batterista dei Pink Floyd, Nick Mason, e alla dedizione di Alfie che Robert Wyatt ha consegnato al mondo quest'opera che definire solo musicale è fin troppo riduttivo. Ogni "presunzione" e "perversione" intellettuale è stata abbandonata e un'intera vita con tutte le sue esperienze (sesso, alcool, gusti…) si annulla. Il cerchio aperto dalla epocale "Moon in June" si chiude definitivamente, consegnadosi al giudizio della storia e dei posteri. La tettonica che scaturiva dall'eterna contrapposizione tra il jazz e il rock si chiude su se stessa e ne rimane solo una musica da camera, trionfo del nuovo intelletto; come David, al termine del suo viaggio-allucinazione, si ritrova in una camera dall'arredamento settecentesco (il secolo dei "lumi") nel finale di "2001", di cui "Rock Bottom" non è che, secondo la mia personale opinione, il suo allucinato e musicale remake.

"Rock Bottom" rappresenta la definitiva chiusura di un'epoca, tanto per l'uomo Wyatt quanto per la storia della musica popolare. È il fulcro inevitabile della storia del rock e ogni giudizio su ciò che c'era prima e ciò che è venuto poi va in un modo o nell'altro ricondotto a questo disco. Ancora oggi esso è acclamato come uno dei migliori dischi rock mai prodotti, vincitore, nel '74, del French Grand Prix "Charles Cros" Record of the Year Award ed è il disco per il quale Robert Wyatt riceve quotidianamente innumerevoli testimonianze di affetto e dedizione da tutto il mondo.

Raramente l'opera d'arte si fonde con la vita del suo autore, quasi non esistesse più alcun confine tra le due esistenze: in fondo il calvario personale di Wyatt, incidente-convalescenza-resurrezione, non potrebbe essere visto come il viaggio metafisico del David di "2001" al pari della sua opera? Quante volte questa triade ha generato arte? Nei dipinti di Caravaggio, negli ultimi Quartetti per archi di Beethoven, nel romanzo "Delitto e Castigo" di Dostoevskij e, infine, in "Rock Bottom", le anime multiformi dei loro autori, le cui intime tragedie erano precluse a chi li circondava, avevano bisogno "dell'onda increspata dei [loro] sentimenti, dei [loro] slanci, delle [loro] speranze frustrate, delle [loro] rivolte, della [loro] malinconia e, nonostante tutto, della [loro] volontà di potenza e di gioia; aveva[no] bisogno della polifonia più agile e più intima." (R. Rolland)

Questo disco, in realtà, contiene mille e mille allegorie (di cui quella descritta qui ne è solo una possibile) e non ne contiene nessuna; ognuno di noi ci troverà il proprio essere e la sua personale visione (tutte legittime); a patto di lasciarsi guidare da questa musica senza opporre alcuna resistenza, senza chiedersi troppi perché e senza prendersi mai troppo sul serio… rimanere flaccidi. È l'unico modo per uscire "indenni" da questa esperienza, con un briciolo di umanità in più.

"Il dottore era stupefatto. Mi disse: ‘Doveva essere proprio ubriaco per rimanere così rilassato mentre cadeva dal quarto piano'. Se fossi stato appena un po' più sobrio, probabilmente oggi non sarei qui: avrei teso tutto il corpo per la paura e quindi mi sarei fracassato".

martedì, novembre 23, 2004

dipendenza

Nido - 1999
VOLO IN DELTAPLANO (Cristina Donà)

Passano veloci le auto
hanno luci che strisciano i muri
continuano a cambiare insegne
continuano a disorientare
vedo te con lei e ormai mi sembra normale
invece è disarmante capire che siamo
solo un passaggio di ombre
che si perdono se perdono il cuore

parlano le donne sul ponte di nuovi abiti da indossare
di uomini mai pronti amanti troppo occupati a "pensare"
ballano un valzer

si stringono forte
vedo me mentre cerco di stare sola
e forse mi aiuta sapere che siamo
solo un passaggio di ombre
solo un passaggio di ombre
che si perdono se perdono il cuore

lunedì, novembre 22, 2004

...STRANEZZE.....

riuscire a sentire una persona cmq vicina... stare tranquilli.....lasciare che le cose mutino nella loro direzione...scoprirsi cmq un po cresciuti... essere un po coccolato deagli altri...riscoprire radici che avevi dimanticato esistessero,,, sorridere sorridere cmq.

ti chiedi ma sara' perche' il cuore 'e cosi usurato che e' piu' insensibile o perche' l'esperienza ti insegna a cogliere cmq il meglio di ogni situazione.....fiducia o sfiducia nei rapporti?!?

so knives out

la vita non e' quella di muccino o almeno lo spero.
bye

domenica, novembre 21, 2004

BYE BYE

..............Sai Mimì che la paura è una cicatrice Che sigilla anche l'anima più dura Non si può giocare con il cuore della gente Se non sei un professionista, ma ho la cura Io non tremo E' solo un pò di me che se ne va E' sporca la città, tutto cercherà Di condurre sino a te e io no Bye bye, bye bye, bye bye, bye bye BOMBAY..............