lunedì, febbraio 21, 2005

daunbailo'

..............Aldilà dell’humour che pervade il film, dovuto soprattutto alle gags di un Benigni in grande forma, becero e surreale nel suo inglese maccheronico e nella sua eleganza da comico del muto, la bellezza di Down by Law risiede ancora una volte nello straordinario garbo con cui vengono tratteggiati questi eroi senza qualità. Viene in mente, irresistibilmente, il cinema di Buster Keaton, il suo rifiuto di ogni patetismo, la dignità un po’ buffa con cui l’ometto subisce i colpi della sorte da lui stesso provocati, l’atmosfera beckettiana in cui è immerso. Anche gli eroi di Down by Law sono buffi ma non patetici: alle prese, come Keaton, con un mondo di oggetti incomprensibile e ostile che non lascia loro spazi vitali, conservano una dignità nelle continue avversità e nella ostinata volontà di “farcela”, un ottimismo che rievoca anche quello di Totò, Ninetto o della Mangano nell’episodio pasoliniano di La terra vista dalla Luna de Le streghe. L’effetto di spaesamento di Down by Law deriva però dal fatto che è come se avessimo Keaton a spasso in un film nero americano di serie B, poniamo un Ulmer (Detour), un Lewis (Undercover Man), un Ray (They Live by Night) – o, perché no, un Huston con le sue atmosfere di scacco. I tre risultano così personaggi di umiliati e offesi presi in un ingranaggio da cui cercano di sfuggire con un pellegrinaggi alle sorgenti del sogno; la felicità, per chi sa riconoscerla, può essere rappresentata dall’incontro con una ragazza ed un piatto di pastasciutta – due cuori e una capanna, appunto. Per i due yankees, invece, essa, probabilmente e appropriatamente, è in nessun luogo e dappertutto, “on the road”: sui titoli di coda Waits canta «Let me fall out of the window with confetti in my hair… And send me off to bed forever more». Geniale amalgama di molteplici mitologie popolari, Down by Law è un lungo blues del Sud che invece di distillare la solita tristezza appiccicosa, dispensa una strana allegria appena venata di malinconia. Comincia all’inferno, ma si conclude non lontano dal paradiso per i suoi piccoli eroi senza casa. E, nello splendido bianco e nero della fotografia di Robby Müller, l’operatore di Wenders, questo mondo “triste e bello” viene coniugato in tutte le possibili variazioni di luminosità, che “doppiano” gli alti e bassi della sorte: il grigiore dell’alba nella città, le oscurità degli alberghi e dei vicoli, la solarità del carcere, il crepuscolo nella palude e infine il calore che emana dalla capanna della fatina e dal finale sulla strada questo sì un po’ chapliniano: la simmetria delle fiabe e l’implacabilità dei sogni si sposano in quello che dovrebbe diventare un piccolo classico.
Alberto Morsiani, Segnocinema n. 26, gennaio 1987

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